image with the sign of Myriobiblos





Main Page | Library | Homage | Seminars | Book Reviews

ΕΛΛΗΝΙΚΑ | ENGLISH | FRANÇAIS | ESPAÑOL | ITALIANO | DEUTSCH

русский | ROMÂNESC | БЪЛГАРСКИ


LIBRARY
 


ΕΠΙΚΟΙΝΩΝIA

Κλάδος Διαδικτύου

SEARCH





ITALIAN TEXT


Previous Page
Stylianos Harkianakis, Arcivescovo d'Australia

Dogma e Autorità nella Chiesa

Phronema 12/1997, pp. 8-23. Traduzione di Pietro Chiaranz


L’autorità sacra e la validità teantropica del dogma

Nel tentativo di promuovere veramente e costruttivamente la sacralità e il carattere inviolabile del dogma nel contesto dell’instabilità generale e della domanda di valori da parte del mondo, parliamo spesso dell’autenticità e della validità del dogma, usando senza riflessione questi due termini con un identico significato, quasi fossero sinonimi. Studi accurati hanno dimostrato in ciò un grave errore che testimonia una confusione inaccettabile di significati i quali conducono ad una grossa imprecisione nell’utilizzo delle espressioni. Quest’avventatezza verbale va sfortunatamente oltre la terminologia formale. Un danno ancor più grande è causato dal fatto che tale imprecisione impedisce seriamente la corretta comprensione dell’essenza più profonda del dogma che — com’è stato già affermato e come sarà mostrato successivamente in dettaglio — si riferisce al suo carattere teantropico.

Per evitare una confusione fatale dobbiamo distinguere tra il significato di “autorità” e quello di “validità” esaminando attentamente il contenuto preciso di ciascuno di essi. Naturalmente con la parola “autorità” non intendiamo la forza morale e il carattere vincolante del dogma ma, piuttosto, la “paternità” e la “fonte” dalla quale deriva la verità che diviene dogma. Questo è più facilmente capito se consideriamo il corrispondente termine latino auctoritas che si riferisce più direttamente alla nozione di paternità. In questi termini è chiaro perché l’“autorità” sia identificata solo col fattore Divino (9). Da una parte ciò dipende, dalla verità di fede che è stata data “una volta per tutte ai santi” (Gd 1, 3) e, dall’altra, da qualche sviluppo susseguente di questa verità nella coscienza del fedele, espresso come un conscio insegnamento e come una teologia caratterizzata sempre dagli straordinari attributi della fede. Ciò previene la verità stessa dall’essere assimilata o, parimenti, comparata con qualche forma di conoscenza razionale.

Avendo così stabilito il significato principale dell’ “autorità” del dogma, come il suo punto iniziale trascendente e la sua fonte, possiamo riconoscere ora più facilmente e senza esitazione alcuna che è naturale inferire al dogma il potere morale e religioso e il carattere vincolante per il fedele. Ciò è un prodotto e una nozione secondaria che discende dall’“autorità”, termine che non comprende il concetto di “validità”. Se, comunque, questa nozione di “validità” deriva dall’origine trascendente e dalla fonte del dogma — dal quale gli si può attribuire la sua principale forza e sacralità — allora sia la natura delle verità della fede che la natura della persona umana ci costringono a riconoscere pure il contributo morale del fattore umano nella manifestazione e nel consolidamento della validità del dogma. Avere la forma salvifica o la forma teandrica (Divino-umana), significa che il fattore umano non rimane neutrale nel processo straordinario dell’irregolare rivelazione, neppure nel compito susseguente della santificazione e dell’eterna salvezza alla quale tale processo mira.

Analizzando la struttura teandrica della natura delle verità di fede, ossia della “sinergia” dei fattori Divini e di quelli umani nella manifestazione originale come nella formulazione più remota del dogma, intendiamo che le verità della rivelazione Divina sono principi salvifici di vita, non un semplice neutrale materiale istruttivo. È così perché la persona umana è chiamata in libertà a riconoscere e a confessare che tali principi provengono dal Dio che parla, ed in seguito a vivere responsabilmente in accordo con essi in maniera da ricevere la salvezza in Cristo. Questa è la ragione principale perché il fedele deve essere pronto in ogni momento a sacrificare, se necessario, pure il suo principale dono divino, la propria vita, per amore della verità della fede (martiri e neo-martiri). Diversamente ciò viene considerato come il peccato più grande del mondo, paragonabile al suicidio per il quale la Chiesa rifiuta di officiare un servizio funebre, malgrado pressioni contrarie da parte di recenti movimenti sociali, e malgrado il fatto che una tale insistenza non si manifesta neppure davanti al caso del criminale più efferato. (10)

Che questa sinergia tra il dato umano e quello divino venga implicata dalla natura della persona umana è ovviamente indicato dal fatto che solo nella libertà e nel summenzionato grado di responsabilità la persona umana si realizza e si sviluppa fino al suo ultimo respiro. Per natura la persona è definibile “ek-statica” che, secondo l’etimologia, significa “fuori di sè”. (11)

È possibile valutare correttamente l’importanza vitale delle realtà ecclesiologiche anche dal solo punto di vista dei fattori Divini ed umani. È sulla base di queste realtà che si fonda la validità umano-Divina del dogma. Attraverso le medesime, viene ininterrottamente ricevuta e mantenuta di generazione in generazione:

a) l’inspirazione Divina delle Sacre Scritture;
b) l’infallibilità della Chiesa;
c) la successione Apostolica;
d) l’adorazione e la pietà popolare in genere; e
e) il sangue dei martiri versato per la fede.

Neanche una di queste grandi realtà ecclesiologiche possono essere studiate o interpretate correttamente se sono viste come un fenomeno che ha un’inspirazione ed un’inclinazione puramente trascendente (monofisita). Invece tali realtà hanno molto più a che vedere con un’essenziale sinergia di fattori Divini ed umani nel senso più profondo e nello scopo più pieno che queste funzioni hanno nella vita della Chiesa.

È importante dipanare questi ultimi concetti. Le prime due verità, (a) e (b), non richiedono altro chiarimento che quello dato dall’Ortodossia odierna nei suoi manuali dogmatici in risposta ad altre formulazioni diffuse specialmente prima della metà di questo secolo in seguito al quale, con la benedizione di Dio, è iniziato [nella teologia greca] un rinnovamento patristico. Grazie al risultato raggiunto, è ora possibile riformulare le fondamentali verità dogmatiche con un linguaggio teologico sensibilmente diverso e più sinceramente ortodosso. Precedentemente lo stesso studioso ortodosso utilizzava un linguaggio che era piuttosto legato alla teologia scolastica o ad un razionalismo irriverente, poiché la maggior parte dei teologi erano stati più o meno inconsapevolmente influenzati dal pensiero delle università occidentali nelle quali avevano fatto i loro studi di specializzazione. A questo punto esporremo molto brevemente gli argomenti che si riferiscono generalmente all’inspirazione Divina delle Sacre Scritture.

Malgrado gli onesti sforzi per affermare le posizioni assiomatiche ortodosse e i criteri ermeneutici da parte della maggioranza degli studiosi biblici ortodossi, non è stata presentata ancora una sintesi dinamica teologica con la quale gli studiosi possano considerarsi giustamente ed ugualmente tra i testimoni meravigliati dell’amore di Dio che si realizza attraverso la Divina economia in ogni periodo storico. Noi, principalmente nel culto liturgico, alludiamo solo a costoro quando esclamiamo: “Dio è meraviglioso fra i suoi santi” (Sl 68, 35). Anticipando una sintesi panoramica, è certo che l’intera dottrina ortodossa sull’inspirazione Divina non dovrà soltanto evitare l’estremità di alcune posizioni eretiche come quella dell’ispirazione verbale, ossia del pensare che esista una dettatura parola per parola da parte di Dio o, al contrario, dell’assenza completa nelle Sacre Scritture di un carattere trascendente. Dovrà pure essere ampiamente chiarito che la Divina ispirazione irregolare appartiene organicamente alla Chiesa, non solo perché solo essa può definire e riconoscere il canone degli autentici testi biblici ma, più radicalmente, perché la rivelazione biblica stessa viene testimoniata e vissuta nella Chiesa. Perciò solo nella “comunione dello Spirito Santo” e nella Chiesa alla quale tale comunione viene incessantemente garantita, è possibile che le Sacre Scritture vengano propriamente interpretate, cioè ritenute autenticamente come parola di Dio.

Similmente si potrebbe dire che l’infallibilità della Chiesa è stata sufficientemente articolata, almeno nei suoi aspetti maggiori, dalle relative argomentazioni teologiche che la riguardano. Comunque ci sono stati — e probabilmente ci saranno ancora — alcuni teologi ortodossi i quali, contrariamente al significato positivo del termine, ritenevano che la parola “infallibilità” fosse d’influenza occidentale ed esprimesse un determinato legalismo istituzionalizzato (12). Bisogna particolarmente sottolineare che molto deve essere ancora detto e pubblicato, principalmente per quanto riguarda le realtà ecclesiologiche rimanenti nei punti (c), (d) ed (e), e al loro contributo più profondo sulla validità teantropica del dogma che viene continuamente verificata in forme nuove.

Naturalmente questo non è il luogo più adatto per presentare in ampi termini i principi ecclesiologici menzionati in altri articoli più specializzati (13). Nondimeno, diverse cose di questi argomenti devono essere presentate nei loro termini generali per mostrare la validità del dogma che è l’argomento in questione.

Prima di tutto, è necessario sviluppare più profondamente le implicazioni della successione apostolica che si potrebbe giustamente definire come i “cromosomi” o la garanzia dell’identità e della continuità della vera Chiesa nel tempo e nello spazio. Questo è ancor più necessario oggi quando, a causa principalmente delle associazioni mondiali di cristiani coinvolte nel movimento ecumenico, esiste l’immediato pericolo che i sensi teologici divengano così spensieratamente ottusi da essere incapaci di diagnosticare o riconosce le autentiche caratteristiche della successione apostolica, concetto ecclesiologico centrale e nevralgico (14). In particolare, si potrebbe considerare la distinta figura storica del Vescovo nel Corpo intero della Chiesa, attraverso la quale tutti i doni dello Spirito Santo vengono comunicati, attivati e perpetuati dalla Grazia divina, in ogni suo membro, manifestando con ciò al mondo l’Una, Santa, Cattolica ed Apostolica Chiesa. Non è permesso alcun malinteso o avventato giudizio nei riguardi di quest’istituzione donata da Dio che responsabilmente e con piena misura (plenitudo potestatis) incarna il successore autentico degli Apostoli nel popolo di Dio, ma che qualche volta viene sfortunatamente attaccata da ingenui o malevoli accusatori come se fosse l’apparente resto d’un empio ed antiquato dispotismo o dell’assolutismo medievale (15).

Le innumerevoli testimonianze patristiche sulla natura puramente cristocentrica o — forse sarebbe più teologicamente giusto dire — cristologica della funzione episcopale nella Chiesa, sono un grande scandalo per la mente razionale. Esse descrivono il Vescovo come “luogo e figura di Cristo”, come colui che, piuttosto d’isolarsi in ambiti severamente liturgici e di preghiera, presiede la Cena del Signore e, per estensione, tutte le comunità eucaristiche dei fedeli. Solo lo “scandalo della croce” (1 Cor l, 18) ha potuto dominare con successo le esigenze della cosiddetta legge naturale riguardo all’assoluta uguaglianza di tutti gli uomini. Prescindendo da ciò, sarebbe stato impossibile riconoscere ad una persona il diritto d’essere considerata il fattore regolante per l’autenticità e la prosperità di istituzioni e di funzioni composte da uomini liberi uniti nella comunione dei fedeli. Sarebbe stato impossibile anche se lo si avesse fatto in nome del “Corpo mistico” di Cristo.

Per confutare gli argomenti contrari, dobbiamo ricordare brevemente gli aspetti basilari dell’insegnamento della Chiesa riguardo al ruolo del Vescovo. Abbiamo soprattutto bisogno di sottolineare determinate sorprendenti verità che possono essere facilmente dedotte dalla prassi liturgica dell’ordinazione episcopale. Così la generale convinzione e l’insegnamento che i Vescovi nella Chiesa sono “per grazia di Dio” successori degli stessi dodici Apostoli che li hanno inviati in varie regioni per essere inconfondibilmente la testa visibile della Chiesa locale, è eloquentemente commentata e interpretata dalla liturgia dell’ordinazione episcopale. L’ordinazione episcopale è chiaramente distinta nel suo contenuto liturgico delle ordinazioni negli altri due gradi sacerdotali (Presbiterato e Diaconato). Nel caso dell’ordinazione di un Presbitero o di un Diacono, non è richiesta alcuna asserzione pubblica o confessione di fede separatamente da quella professata da tutti i membri della Chiesa per il loro battesimo. Il candidato è garantito alla Chiesa dal suo Vescovo e segue i suoi desideri e le sue richieste. D’altra parte, benché il candidato all’ufficio episcopale nella fase iniziale non abbia il diritto di sottoporre alcuna richiesta se non attraverso la Chiesa e solo attraverso il Santo Sinodo, può prendere simile iniziativa e compiere una decisione personale, allorché l’intera responsabilità è trasferita pubblicamente al candidato eletto, che deve fare un’ufficiale e lunga confessione di fede nel sacro momento della sua ordinazione.

È particolarmente significativo che, dopo aver recitato il Credo, il Vescovo neo-ordinato sia invitato a “confessare” e a dichiarare la fede nella Chiesa “più ampiamente”, come se accettasse senza riserve con un giuramento l’insieme e ogni singola cosa che la Chiesa stessa ha accettato attraverso i suoi Concili Ecumenici e rigettasse e anatematizzasse, con lo stessa decisione, quanto i Concili hanno condannato per sempre. Se si considera il fatto che colui che viene ordinato Vescovo conserverà tutte queste cose “fino al suo ultimo respiro” è ovvio presupporre e identificare la sua coscienza episcopale per tutta la durata della sua vita con la voce e la coscienza infallibile della Chiesa che ha parlato attraverso i Concili Ecumenici. Il Vescovo è ufficialmente “offerto” come la persona che svuota se stessa più di chiunque altra nella fedele obbedienza alla Chiesa militante, concordemente all’esempio dell’incarnato unigenito Figlio di Dio che, in obbedienza alla volontà del Padre, è divenuto “obbediente fino alla morte” (Fil 2, 8).

Il carattere puramente cristologico dell’ufficio episcopale è tratto da questo parallelismo mistico, se non da un’identità donata per Grazia. Per analogia e in virtù del mistico parallelismo esistente, tutto quello che Cristo ha propriamente proclamato di Sé stesso dicendo “Chi vede me vede il Padre” (Gv 14, 9), viene applicato pure al Vescovo. Così “per Grazia di Dio” il Figlio che è divenuto assolutamente servo della Chiesa, diviene in qualche modo, automaticamente Padre di ogni fedele. Solo attraverso tale obbedienza e kenosis si capisce e si accetta da allora in poi la responsabilità suprema e l’autorità che la Chiesa gli riconosce. Sfortunatamente, il vocabolario legale delle leggi canoniche non è diretto ad esprimere questo concetto in termini più appropriati o effettivi. Abbiamo, allora, la scolastica definizione plenitudo potestatis presa in prestito dall’Occidente. L’intera forza spirituale dell’ufficio episcopale è fondata in quella legge evangelica secondo la quale “il mio potere è reso perfetto nella debolezza” (2 Cor 12, 9) e “quando sono debole è allora che sono forte” (2 Cor 12, 10). Non avrebbe potuto essere altrimenti, visto che il ruolo del Vescovo è descritto nel Nuovo Testamento principalmente come un “ministero di riconciliazione”.

L’importanza dell’inspirazione Divina delle Sacre Scritture, dell’infallibiltà della Chiesa e della successione Apostolica hanno ricevuto un sufficientemente ampio riconoscimento da parte dei fedeli e ciò ha contribuito direttamente e sostanzialmente alla validità Divino-umana del dogma. Tuttavia non siamo abilitati a dire lo stesso per quanto riguarda l’adorazione, la pietà popolare e il martirio. Al contrario, l’impressione dominante è che la validità del dogma — che il dogma ha per se stesso — è di fatto la causa iniziale e la forza creativa nello sviluppo dell’adorazione e di tutte le sfumature della pietà personale o collettiva, come pure del martirio cristiano. Senza approfondire il potere e l’influenza formativa del dogma in tutte le attività del popolo di Dio, dobbiamo sottolineare, per il momento, anche l’effetto opposto. Non si può trascurare la testimonianza che ogni generazione passata di fedeli ha dato in tutti i secoli alla verità e alla sacralità del dogma. Ciò non richiama il valore della testimonianza a cui Dio si riferisce quando evidentemente invita tutte le genti a renderla? Non è questo il significato dell’esortazione “I testimoni miei siete voi - oracolo del Signore - i miei servi che mi sono scelto” (Is 43, 10)?

Quanto si riferisce al culto e, per estensione, alla pietà popolare, non è determinato da desideri personali o da mode prevalente secolari, ma piuttosto, da riferimenti strettamente tradizionali cosicché tutte le cose cantano — con identica espressione di fede — la confessione e la lode del Dio Trinitario. Posto questo fatto, è parimenti più chiaro che il culto, e la forza di vari usi e tradizioni affermano ulteriormente la validità Divino-umana del dogma.

Se tutto ciò è vero per l'innocua e, per definizione, ordinaria testimonianza dell’insieme dei fedeli uniti nella Chiesa, si può ulteriormente apprezzare la maggior forza morale e la testimonianza del sangue dei Martiri e dei Confessori della fede. Prova innegabile di ciò è la considerazione che già la Chiesa primitiva aveva del sangue del martirio considerato come un percorso ugualmente valido alla salvezza. Tale sangue era parificato al sacramento del Battesimo. Il potere purificante e salvifico del martirio come “fonte di rinascita” pare sia stato indicato da Dio attraverso il profeta Isaia: “Producano i loro testimoni [martiri], altrimenti ascoltino e dicano: ‘È vero’” (Is 43, 9). Questa frase allude a qualche cosa di più ammirevole per cui non può non avere un significato particolare: il sangue dei Martiri non solo giustifica loro stessi, ma giustifica pure ogni fedele che è con e fra loro. Comunque, dobbiamo aggiungere immediatamente che tale “giustificazione” dell’Antico Testamento non deve essere confusa con l’ultima giustificazione, la santificazione e la salvezza attraverso Cristo che avviene solo nel Suo sangue.

Da quanto è stato esaminato con particolare attenzione — sia le asserzioni consacrate ufficialmente, sia le fonti mistiche meno evidenti che “irrigano” perpetuamente il dogma della Chiesa in modo che la fede resti sempre viva e vittoriosa sul mondo — in conclusione si deve affermare che, solo attraverso una valutazione corretta di tutti i parametri sacramentali fatta nel timore di Dio, si verifica concretamente che la Chiesa di Dio è nella “comunione del creato con l'Increato nella grazia senza confusione o divisione, per la salvezza del creato e la gloria dell'Increato” (16).




NOTE

9. Cfr. C. ANDROUTSOS, Dogmatica, p.12.

10. Pure recentemente, il Prof. John Konidaris che insegna legge ecclesiastica nella Scuola di Legge dell’Università di Atene ha espresso l’urgenza del problema dei funerali per coloro che si suicidano (cfr. The Sunday Vema, giornale in greco, 16 Giugno 1996).

11. Confronta lo studio dello stesso autore “The Mystery of Person and Human Adventure” in Orthodox Globe, Brookline, USA, 1, n° 4, giugno 1996.

12. Così, per esempio, il sempre memorabile e benevolente decano della Scuola di Teologia dell’Università di Atene, D. Moraitis, quando ha esaminato la dissertazione della laurea di terzo grado dell’autore intitolata “L’Infallibilità della Chiesa nella Teologia Ortodossa” non ha esitato d’affermare in tutta sincerità d’essere stato completamente inconsapevole che “l’infallibilità fosse un articolo di fede nella nostra Chiesa”! Altri amici e colleghi, vale a dire l’Archimandrita Athan Jevcic (ora Metropolita di Bosnia) e il Prof. Christos Yannaras, hanno immediatamente analizzato questo studio, senza giungere, naturalmente, a convincenti argomentazioni.

13. Questi articoli sono stati originalmente pubblicati in The Voice of Orthodoxy, periodico mensile dell’Arcidiocesi Greco-Ortodossa d’Australia. Verranno ristampati da “Domos” pubblications in una serie di libri, il primo dei quali avrà il titolo “Incarnations of Dogma”.

14. E’stata una sorpresa molto amara per il cristiano ortodosso come pure per tutti i cristiani orientali la temeraria audacia con la quale determinati cristiani del Consiglio Mondiale delle Chiese si sono avvicinati o piuttosto distanziati dal problema della successione Apostolica in una conferenza teologica internazionale di quattro anni fa. Un gruppo interamente composto da donne d'America, presumibilmente "pastori", hanno tentato di convincere la riunione della quinta Conferenza Mondiale su Fede ed Ordine (tenuta nel 1993 in Santiago di Compostela e col tema "Verso la Koinonia nella Fede, Vita e Testimonianze"), che "il luogo dei dodici Apostoli nella Chiesa e nella storia non merita in ogni modo grande importanza o distinzione rispetto a quello tenuto da ognuno che crede in Cristo, uomo o donna, colto o laico che sia". Quando l'autore, come capo della delegazione ortodossa in quella conferenza, ha pubblicamente domandato alla più furiosa tra le donne intransigenti se essa avesse osato proporre un suo scritto al mondo moderno con la stessa autorità dei testi sacri che costituiscono il canone delle Sacre Scritture, la "batracomiomachia" di costei si trasformò una discussione senza fine.

15. Vedi l’articolo intitolato “The Bishop in the Church” nella Voce Orthodoxy v. 5 (maggio 1984), p.49.

16. Ibid.

Previous Page